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Organizzare la sinistra di rottura: La France Insoumise e il ciclo di lotte francesi.

Intervista a Clémence Guetté et Antoine Salles-Papou.

a cura del Séminaire Capitalisme Cognitif

(Francesco Brancaccio, Andrea Di Gesu, Davide Gallo Lassere, Matteo Polleri, Carlo Vercellone)

La conversazione con Clémence Guetté (deputata, vicepresidente dell’Assemblée Nationale e co-presidente dell’Institut La Boetie – Fondation Insoumise) e Antoine Salles-Papou (responsabile formazione dell’Institut La Boétie e assistente di Jean-Luc Mélenchon) rappresenta un documento prezioso per comprendere l’emergenza e l’evoluzione di La France Insoumise (LFI), principale forza della “sinistra di rottura” in Francia, da un punto di vista interno alla sua struttura organizzativa. Attraverso un'analisi delle precondizioni che ne hanno reso possibile la nascita – segnatamente, il ciclo di lotte anti-neoliberali che dura in Francia sin dagli anni Novanta e la crisi delle appartenenze politiche esplosa con il referendum del 2005 sulla Costituzione europea – gli intervistati mostrano come LFI si sia configurata come una infrastruttura ibrida a metà strada tra “piattaforma elettorale” e “partito-movimento”: una forma politica capace di articolare, non senza limiti e ambiguità, organizzazione molecolare e decisione strategica.

Un punto centrale che emerge nell’intervista è l'apertura di LFI alle istanze dei movimenti sociali: ecologia popolare, femminismo, antirazzismo, giustizia sociale e fiscale, nonché, in particolare nell’ultimo periodo, la lotta al genocidio palestinese come criterio per ricostruire alleanze internazionaliste e altermondialiste. Nelle parole degli intervistati, LFI si configura come un dispositivo poroso – e certo, aggiungiamo, contraddittorio e incompiuto – ma pienamente inscritto nel ciclo delle lotte di classe francesi riapertosi con la Nuit Debout nel 2016, radicalizzatosi con la sollevazione dei Gilets Jaunes e i grandi scioperi contro la riforma delle pensioni tra il 2018 e il 2023 e giunto fino all’insurrezione antirazzista seguita all’omicidio poliziesco del giovane Nahel nell’estate 2023 e alla mobilitazione anticoloniale a sostegno del popolo palestinese.

L’evoluzione di LFI all’interno delle lotte francesi segna una presa di distanza dalla categoria di “populismo” – già inadeguata al momento della fondazione per cogliere la complessità del progetto insoumis – a favore di una prospettiva che assume la pluralità e l'intersezionalità delle lotte come dimensione costitutiva della soggettivazione politica. Da un lato, l’apertura – o meglio, la porosità – di LFI non è il risultato della buona volontà del leader o di un ceto politico bendisposto ma, al contrario, dell’autonomia delle lotte e della loro capacità di imporre temi, linguaggi e pratiche nel dibattito pubblico. Dall’altro lato, questa porosità non è l’indice della traduzione lineare della protesta nella rappresentanza o di un processo nel quale i “movimenti” si fanno “partito”. Si tratta, piuttosto, di un rapporto di contaminazione reciproca tra pratiche di lotta e forme della politica – delle forme che non sono mai pure e che non si stabiliscono a tavolino. In questo senso, LFI sembra allontanarsi dall’ipotesi del “construir pueblo” di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, ripresa da Íñigo Errejón in Spagna durante una fase, ormai superata, della traiettoria di Podemos.

Attualmente, LFI continua a funzionare come una piattaforma elettorale che “verticalizza” efficacemente le istanze dei movimenti operando talvolta in modo troppo gerarchico: un limite importante per un progetto si propone di superare la “monarchia presidenziale” della V Repubblica francese. Eppure, almeno fino a oggi, organizzandosi anche come partito-movimento LFI mantiene aperta l’ipotesi della rottura – o, per usare le parole che gli intervistati riprendono a loro volta da Mélenchon, della “rivoluzione cittadina” (révolution citoyenne). Rischiosa in italiano, questa formula non rimanda alle ambiguità del “cittadinismo”, ma rievoca la tradizione rivoluzionaria francese e allude alla possibilità di una trasformazione che non si limita alla via elettorale. Sarà possibile conservare e approfondire questa tensione a fronte della formazione di un “arco antipopolare”, cioè del virtuale compattamento di destra, estrema-destra e centro-sinistra in chiave anti-LFI? I prossimi mesi saranno decisivi per capirlo, ma è evidente fin da subito che soltanto un nuovo ciclo di mobilitazioni potrà riaprire il campo del possibile per rafforzare, o smentire, la scommessa insoumise.

Nel contesto italiano, segnato dall’assenza di una sinistra politica significativa e dalla pesante crisi degli stessi immaginari “di movimento”, questa intervista offre una riflessione necessaria per ripensare il nesso tra lotte, organizzazione e strategia contro-egemonica. L’esperienza di LFI non va letta come un ennesimo modello da importare, ma come un laboratorio da studiare per la sua capacità di articolare istanze differenti dentro un orizzonte programmatico a un tempo plurale e radicale.

Grazie per aver accettato di partecipare a questa conversazione, dedicata al problema – o piuttosto all’enigma – dell’organizzazione politica delle forze sociali che lottano per trasformare l’esistente. Ne parliamo con voi a partire dall’esperienza, sotto molti aspetti eccezionale, de La France Insoumise (LFI). Cominciamo con un passo indietro. In che contesto sociale e politico nasce LFI? Quali erano le principali sfide al momento della sua creazione e in che modo questa congiuntura ha influenzato la strutturazione e l’ideologia del movimento?

La France Insoumise è stata creata nel febbraio 2016, inizialmente come una proposta elettorale, attorno a una candidatura per l’elezione presidenziale: quella di Jean-Luc Mélenchon. La forma precisa che il movimento avrebbe assunto non era ancora definita in quel momento. Il contesto francese, europeo e mondiale aiuta a comprendere, a posteriori, perché questa iniziativa sia stata un successo. Essa è apparsa, all’incrocio di diversi cicli politici e sociali più o meno lunghi, come un mezzo per sbloccare la situazione, sciogliere i nodi che si erano formati e passare a una fase successiva.

Quali sono questi cicli? Innanzitutto, c’è un ciclo lungo del movimento sociale francese di resistenza alle riforme neoliberali. Si può, per semplificare, farlo iniziare con i grandi scioperi vittoriosi dell’inverno 1995 contro il piano Juppé. La maggioranza di una sinistra plurale (PS/PCF/Verdi), anche se ha portato avanti privatizzazioni nonché varie riforme neoliberali, è risultata piuttosto singolare nel panorama della socialdemocrazia europea. In primo luogo, si è trattato di un’alleanza del Partito Socialista verso sinistra, e non verso il centro. In secondo luogo, il movimento operaio ha comunque ottenuto una riduzione dell’orario di lavoro, un fatto unico in Europa in quel periodo.

Poi, negli anni 2000, vi è un numero impressionante di mobilitazioni contro le riforme neoliberali, con scioperi, occupazioni di università, manifestazioni molto massicce. Nel 2003, contro la riforma delle pensioni Fillon, con uno sciopero molto seguito nella pubblica istruzione; nel 2006, contro il “Contratto di Primo Impiego”, infine ritirato dal governo Villepin; o ancora nel 2010 contro la riforma delle pensioni di Sarkozy, con 3,5 milioni di lavoratori e studenti mobilitati nel picco delle manifestazioni, secondo i sindacati. E qui si citano solo le mobilitazioni più importanti, ma ne sono esistite altre, contro l’autonomia finanziaria delle università, contro riforme dell’istruzione pubblica, ecc. E anche se molti di questi movimenti sociali sono stati sconfitti, la vittoria è arrivata a intervalli abbastanza regolari da costituire un orizzonte credibile: 1995 (riforma Juppé), 2006 (CPE), 2008 (riforma Darcos del liceo), per esempio.

Tutto ciò per dire che il ciclo lungo delle mobilitazioni costituisce, in quel momento, una singolarità francese nello spazio europeo e occidentale: una combattività molto grande, una resistenza e un’esperienza critica del neoliberismo. Da qui anche il fatto che il neoliberismo ha avuto un’egemonia debole in Francia, nel senso che le classi popolari, grazie a questa storia, sono rimasti al di fuori di un’adesione anche solo passiva, e sempre disponibili a una critica attiva nei suoi confronti. Allo stesso tempo, però, durante tutto il periodo degli anni 1990 e 2000, non vi è una coagulazione a livello politico di questa contestazione sociale. La sinistra al di fuori del PS resta su livelli alti per gli standard europei (due candidati trotzkisti raggiungono il 10% dei voti nel 2002 sommando i loro risultati). Ma non c’è un polo attrattivo capace di trasformare la dinamica di resistenza sociale in dinamica politica.

Il secondo ciclo importante nel quale si comprende il successo della proposta insoumise riguarda più specificamente il livello politico, anche se non può essere analizzato se non in connessione con quanto appena descritto a proposito del movimento sociale. Il suo punto di partenza è il referendum sulla Costituzione europea del 2005. Questo evento ha funzionato da detonatore e acceleratore del disfacimento dei grandi blocchi sociopolitici, a sinistra come a destra. Dagli anni 1980, questi due blocchi gestivano contraddizioni tra diverse frazioni, alcune ostili alla riforma neoliberale del capitalismo francese; altre favorevoli. Ora, nella campagna del 2005, si sono visti questi due grandi blocchi disgregarsi, e ancor più la parte pro-europea di entrambi i blocchi fare campagna insieme. L’immagine più simbolica di questo periodo è la copertina del magazine pop Paris Match, dove i due futuri Presidenti della Repubblica, Nicolas Sarkozy e François Hollande, posano fianco a fianco per invitare a votare “sì”. Entrambi saranno poi gli agenti di un allineamento del centro-destra francese sul neoconservatorismo e del centro-sinistra sulla “terza via” alla Clinton-Blair. Questi campi hanno perso la loro specificità propriamente francese. Solo che questa specificità non era una stravaganza, ma era legata al fatto che l’innesto neoliberale non ha mai attecchito molto bene in Francia. L’allineamento dei due grandi partiti francesi verso una sorta di proto-blocco borghese provocherà dunque un grande sconvolgimento. Vari blocchi sociali si ritroveranno orfani, perfino in collera contro i loro antichi rappresentanti. Mentre altri si ritroveranno sempre più vicini tra loro. Tutto ciò condurrà al crollo totale del campo politico del vecchio mondo in occasione della campagna del 2017. Il che significa che il momento era ormai maturo per delle proposte di riorganizzazione dello spazio politico. Con il senno di poi, è per questo che all’epoca si parlava di “momento populista”. Esso corrispondeva a un momento di crollo delle antiche identificazioni politiche e quindi di grande fluidità, di disponibilità favorevole a nuove configurazioni.

Infine, forse ve ne ricordate, la creazione di La France Insoumise è quasi esattamente concomitante con l’inizio del movimento sociale contro la legge sul lavoro. Cioè, in realtà, con una ripresa del movimento sociale dopo 4 anni di quasi silenzio su questo fronte, ossia dall’elezione di Hollande nel 2012. Ciò può essere visto come una ripresa, dopo una pausa, del ciclo francese aperto nel 1995 che abbiamo appena descritto, oppure come l’ingresso, in ritardo, della nuova generazione francese in un movimento mondiale di crollo dell’egemonia del neoliberalismo. Se ci si ricorda del movimento del 2016, si vedono chiaramente le influenze degli altri movimenti sociali post-crisi del 2008, in particolare nell’Europa del Sud e in Nord America. La modalità di occupazione delle piazze, conosciuta in Francia nella forma di Nuit Debout, è evidente da questo punto di vista. Ma nei contenuti si è visto a partire da questo movimento che la critica del neoliberismo prendeva una piega più radicale, con una forte ripresa di temi democratici e, già a quella data, di temi femministi e antirazzisti. Se la proposta insoumise ha potuto decollare nel 2016/2017, è perché era uno strumento adatto a permettere a questi cicli storici di continuare, di passare alle fasi successive. Si appoggiava su una figura conosciuta, carismatica, con il capitale mediatico necessario per realizzare la coagulazione politica del movimento di fondo anti-neoliberale francese. Ha inventato un nuovo linguaggio simbolico, distante dalle vecchie identificazioni politiche, e sviluppato una strategia discorsiva populista, il che le ha permesso di incunearsi nel vuoto creato dalla crisi dei vecchi blocchi. Infine, il suo programma, i suoi temi, le rivendicazioni avanzate erano coerenti con l’inizio della fase di crisi dell’egemonia del neoliberismo, che cominciava in Francia nel 2016, con il movimento contro la legge sul lavoro.

Dalla sua fondazione LFI non ha smesso di evolvere. Si è inoltre rapidamente affermata, fino a diventare, al momento della costituzione della coalizione elettorale NUPES (Nouvelle Union Populaire Écologique et Sociale), nel 2022, e del NFP (Nouveau Front Populaire), nel 2024, la forza egemonica della sinistra francese, capace di guidare delle alleanze, certo instabili, comprendenti socialisti, ecologisti e comunisti. Qual è oggi la struttura organizzativa di La France Insoumise?

La prima cosa da dire è che LFI è, fin dalla sua nascita, sempre in costruzione, in costante evoluzione. La sua struttura di base, che esiste dal 2016, è il gruppo d’azione (GA). Le regole di funzionamento dei gruppi d’azione sono concepite in modo da permettere una grandissima flessibilità nell’organizzazione, da adattarsi a forme di impegno a più velocità e che cambiano nel corso del tempo, da seguire le onde e i riflussi dei grandi cicli sociali e politici. Chiunque può creare o unirsi a un gruppo d’azione. Non c’è alcuna quota associativa, né adesione formale e ufficiale. Basta iscriversi al social network Action Populaire, che permette rapidamente e facilmente di sapere quali GA esistono attorno a sé. Nessun GA ha un monopolio territoriale. Questo significa che chiunque può creare il proprio gruppo, anche se già ne esiste uno nella stessa città, nello stesso quartiere, perfino nella stessa via! Queste disposizioni hanno l’obiettivo di abbassare al massimo le barriere materiali e simboliche alla militanza politica. Lo scopo è avere una struttura porosa con la società, e stabilire piuttosto un continuum tra la convinzione personale, la partecipazione occasionale a un’azione, l’identificazione con un movimento sociale, il militante “di contesto” e l’appartenenza a un GA. Un altro obiettivo è avere il maggior numero possibile di gruppi, che investano il sociale a livello micro. Ci sembra che il modo migliore per raggiungere un tale dispiegamento molecolare non sia quello di avere un piano di copertura stretto immaginato centralmente e poi imposto sul territorio. Lasciare la libertà totale di creare dei GA permette che la loro struttura si modelli su strutture sociali realmente esistenti: un gruppo di amici, un gruppo di vicini, di genitori di alunni della stessa scuola, un quartiere, ecc. È più efficace che semplicemente ritagliare una mappa per zone. Naturalmente una conseguenza di questa organizzazione può essere che certi gruppi siano di fatto “dormienti”. È perfino previsto che ciò sia possibile, ma può creare problemi nel momento in cui una persona cerca di unirsi a un GA della FI. Per questo abbiamo aggiunto una procedura di “certificazione” dei gruppi. I gruppi certificati sono quelli che hanno registrato almeno due azioni su Action Populaire negli ultimi due mesi e che hanno un binomio paritario di animatori o animatrici. Questo permette di distinguere i GA attivi in un momento dato rispetto dagli altri.

Ma i GA non sono che una faccia della France Insoumise. Il movimento vuole essere proteiforme. Applica una sorta di confederalismo. Abbiamo all’interno della France Insoumise diversi “spazi”. Ogni spazio funziona in modo semi-autonomo e secondo una propria logica. C’è uno spazio dei GA. C’è anche uno “spazio programma”, che riunisce l’insieme del lavoro programmatico, e in particolare una cinquantina di “gruppi tematici”, composti da militanti che hanno una competenza particolare su questo o quell’argomento e vogliono metterla a disposizione. Questi gruppi redigono i “libretti tematici” del programma, lavorano durante le diverse fasi di aggiornamento del programma, organizzano audizioni con associazioni, collettivi, assicurano il legame del movimento con loro, ecc. C’è anche uno spazio chiamato “battaglie della società”, che è lo spazio delle lotte. È composto da sindacalisti, attivisti ecologisti, antirazzisti o dell’auto-organizzazione urbana che, come militanza insoumise, si assicurano di fare da ponte tra il nostro movimento e il mondo delle lotte, garantirvi la nostra presenza, far risalire i loro bisogni, e così via. Anche l’Institut La Boétie, dove degli universitari scelgono di militare mettendo a disposizione gratuitamente il proprio lavoro intellettuale, è considerato uno spazio.

Lo vedete attraverso questi esempi: ogni spazio risponde a una logica, a un tipo di militanza diverso e che gli è proprio. La militanza insoumise non ha una sola forma. Può prenderne diverse. Per questo, quando si è trattato di mettere in piedi uno spazio di direzione identificato per il movimento, abbiamo voluto che rappresentasse questo aspetto confederale, ed è quindi la coordinazione degli spazi, un’istanza in cui ogni “spazio” riconosciuto della France Insoumise è rappresentato e che si riunisce una volta a settimana per discutere dei temi a breve termine su cui la France Insoumise deve prendere posizione come movimento. Per le questioni a medio termine, l’istanza è l’Assemblea rappresentativa, che si riunisce due volte l’anno, con rappresentanti per dipartimento sorteggiati e rappresentanti designati dagli spazi. È quest’ultima che adotta le linee strategiche, ad esempio in vista delle elezioni prevedibili. Ecco, in sintesi, il funzionamento di base della France Insoumise. Ci sono altri elementi che complicano il quadro, come per esempio le “loop (cerchie) dipartimentali”. È una novità che corrisponde all’introduzione di elementi di solidificazione all’interno di un movimento che resta per sua natura molto flessibile e talvolta volatile. Questo livello di coordinazione dipartimentale, con i suoi referenti incaricati di compiti specifici (ricezione del materiale, servizio d’ordine, ecc.), costituisce una sorta di ossatura nel mezzo gassoso. A ciò si aggiungono strutture temporanee legate alle necessarie discussioni in vista delle scadenze elettorali. In questo momento, gli insoumis stanno così elaborando le loro strategie e i loro programmi per le elezioni municipali del prossimo anno, all’interno di assemblee organizzate su questa scala.

Copertina del primo numero di Teiko

©LFI

Veniamo ora a un punto più specifico, ma cruciale. Come articolare il momento della “decisione politica” – che si potrebbe anche definire come “verticalità discorsiva” incarnata dal leader e dal nucleo dirigente – con l’orizzontalità democratica del movimento, sostenuta da una moltitudine di assemblee e gruppi d’azione che si auto-organizzano tramite l’applicazione Action Populaire?

Si tratta di una questione di gestione di temporalità differenti. In politica, non c’è separazione tra un momento in cui si decidono posizioni, strategie, tattiche e poi un secondo momento in cui si applicano a situazioni concrete. Nella realtà, è praticamente impossibile distinguere i due momenti. Le decisioni da prendere emergono in funzione delle situazioni. Nessuna situazione concreta corrisponde all’applicazione pura e perfetta del quadro teorico stabilito in anticipo. E un buon quadro teorico, ovviamente, evolve con le situazioni concrete.

Inoltre, il ritmo generale secondo cui funziona la società è oggi più rapido rispetto al passato. Potrà sembrare una banalità, ma è una realtà essenziale del nostro tempo, che ha origine nell’esplosione del numero degli esseri umani, della loro densità urbana, della velocità di spostamento, della velocità di trasmissione delle informazioni, e dell’accelerazione del ciclo del profitto stesso. Quindi bisogna prendere decisioni più velocemente che negli anni ’60 per stare al passo con il ritmo sociale. Anche se l’immagine che evocate del leader che prende le decisioni da solo è riduttiva, è vero che nel funzionamento della France Insoumise esistono spazi di direzione ristretti, concepiti per decidere in fretta, e non avere ritardi nell’attivazione. Nel periodo 2017–2022, il gruppo parlamentare, che contava allora solo 17 deputati, aveva questa funzione. Dall’aumento a 72 deputati, è il coordinamento degli spazi a ricoprire questo ruolo. Si tratta di istanze che possono essere costantemente in comunicazione tramite chat o messaggistica, e avere la reattività necessaria alla politica moderna.

Ma questa è solo una parte della storia. Perché descritta così, la vita politica ordinaria e quotidiana della LFI sembrerebbe instaurare una frattura insormontabile tra la base e il vertice. Si dimentica che la presa di decisione, il fatto di tagliare il nodo da un lato o dall’altro, ciò che fanno quindi gli spazi di direzione, non è che l’ultimo segmento di un lungo processo che è appunto la presa di decisione.

Innanzitutto, in maniera formale e istituzionalizzata, ci sono dei quadri di medio e lungo termine che vengono regolarmente stabiliti dagli Insoumis. Sono quelli che abbiamo descritto nella domanda precedente, in particolare l’Assemblea rappresentativa, che funziona in un modo tutto sommato abbastanza classico, con un testo che fa avanti e indietro tra la coordinazione, i gruppi d’azione, il tutto poi sintetizzato in assemblea.

Poi, c’è un elemento che si trova al confine tra istituzione e cultura comune più informale. Questo elemento è il programma: L’Avenir en commun. Per via del suo metodo di costruzione, dei suoi successivi aggiornamenti, dell’importanza che ha avuto sin dall’inizio nei discorsi degli Insoumis e della centralità che ha acquisito nelle discussioni della sinistra, questo documento è diventato più di un semplice strumento per una campagna elettorale. È un riferimento comune. Ed è il quadro entro cui gli insoumis godono di una libertà d’iniziativa. È all’interno di questo quadro che viene accettata la flessibilità di movimento per i dirigenti.

Oltre al solo programma, c’è il fatto che i dirigenti del movimento, chiamati a prendere decisioni molto rapide, sono immersi in un articolato ambiente informativo insoumis. La France Insoumise, quotidianamente, si presenta come uno spazio di scambi informativi molto denso. Un’enorme quantità di informazioni circola, ogni ora, tra la base, gli eletti e la direzione, direttamente, senza richiedere più tempo di quello necessario per scrivere un messaggio in una chat. Non si può commentare la struttura delle organizzazioni, politiche o sociali, senza tenere conto delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione di cui dispongono. Il legame tra strutture centrali, cellule di base ed eventuali livelli intermedi non è della stessa natura se deve essere realizzato con il telegrafo, un telefono per cinquanta famiglie, un telefono per famiglia o gruppi di discussione istantanea senza limiti. Una gran parte della struttura piramidale, delle abitudini di riunioni a ogni livello, che esisteva nei partiti di massa del XX° secolo, era giustificata perché rispondeva a vincoli concreti di comunicazione! Vincoli che oggi sono scomparsi.

In cosa si distingue LFI dalle altre esperienze politiche di sinistra degli anni 2000 e 2010? Quali insegnamenti avete tratto dalla traiettoria di altri partiti e piattaforme elettorali, come Podemos in Spagna, Syriza in Grecia o, per uscire dallo spazio europeo, Morena in Messico? Questo ci fa anche pensare a un tema connesso ma distinto: in che modo, dalla sua fondazione, la prospettiva di LFI è evoluta rispetto alle alleanze europee e altermondialiste?

Si può dire, in generale, che La France insoumise è scaturita dallo stesso contesto storico di esperienze come Podemos, il Bloco o Syriza nell’Europa continentale, ma anche dei movimenti attorno a Jeremy Corbyn nel Regno Unito e a Bernie Sanders negli Stati Uniti. Diciamo subito che per noi Syriza è definitivamente uscita da questo insieme dal momento della capitolazione di Tsipras. Ma questo episodio ha nutrito le nostre riflessioni, del resto. Ci ha convinti del livello di conflittualità a cui bisogna essere preparati in caso di esperienze di potere per la sinistra di rottura. È il problema principale a cui bisogna far fronte, e, nell’Unione Europea, le istituzioni europee, in particolare quelle più distaccate dalla sovranità popolare come la banca centrale, giocano un ruolo chiave come strumento delle classi dominanti per schiacciare un’esperienza di sinistra.

Per questo la conclusione che ne abbiamo tratto è stata di approfondire l’orientamento di rottura. Da una parte, non bisogna nutrire l’illusione che un compromesso rapido sia possibile con le classi dominanti. Non lo è. In seguito, proprio per questa ragione, bisogna preparare in anticipo gli strumenti programmatici per instaurare un rapporto di forza piuttosto duro con l’Unione Europea. È per questo che abbiamo fatto di questo aspetto un punto fermo nell’elaborazione dei programmi comuni della NUPES o del NFP. Infine, bisogna preparare in anticipo i piani di risposta alle offensive che subiremo.

Per rispondere più direttamente al tipo di internazionalismo che stiamo costruendo, in particolare in Europa: oggi ci troviamo in una posizione particolare. Siamo la forza che gode, sul continente, della posizione più avanzata sul piano elettorale e militante. Questo ci dà la responsabilità di prendere l’iniziativa per costruire una rete. È una questione che consideriamo molto importante. I nostri dirigenti viaggiano molto, incontrano ovunque i dirigenti delle forze degli altri paesi europei — ma questo vale anche per l’intero continente americano, e per l’Africa. Crediamo di più nel lavorare per ricreare una vera rete internazionale, di mutuo aiuto, di coordinamento, di scambio tra compagni, piuttosto che nell’idea che una forza omogenea della sinistra di rottura possa emergere direttamente su scala europea o oltre.

Nei vostri interventi sottolineate spesso il fatto che LFI è un “movimento” piuttosto che un partito tradizionale, o al massimo un “partito-ombrello”, concepito per difendere, sostenere e rafforzare una pluralità di pratiche di lotta, ma anche capace di essere a sua volta contaminato da queste pratiche. Questo solleva la questione del rapporto tra l’interno e l’esterno. In altre parole, tra LFI in quanto piattaforma politica elettorale e i movimenti sociali. Potreste ritornare su questo modello d’organizzazione e sulle relazioni tra LFI e i movimenti sociali francesi dell’ultimo decennio?

La questione del rapporto tra un “esterno” e un “interno” non si pone per noi in modo così dicotomico. Precisamente, la forma di organizzazione che tentiamo di inventare si concepisce come inserita in un continuum con il sociale, come porosa e non come un organismo distinto e separato da una membrana impermeabile rispetto al resto della società.

Dunque, noi ci viviamo come parte del movimento sociale, come una delle sue componenti e e traendo nutrimento da esso. Che si tratti dell’affluenza alle riunioni dei gruppi d’azione sul territorio, o dei dati di frequentazione della piattaforma Action Populaire, si può chiaramente seguire a ritroso la storia recente del movimento sociale. I periodi di intense mobilitazioni, ad esempio il movimento contro la riforma delle pensioni del 2023 o il movimento per la pace in Palestina del 2024, sono momenti in cui il movimento si gonfia, si riempie. Si constata una maggiore attività, nuove iscrizioni. Un periodo di riflusso corrisponde a una fase di calma anche per il movimento, anche se non si ferma mai tanto quanto si può osservare per un movimento sociale. Quindi, poiché ci rappresentiamo la nostra relazione con le lotte in questo modo, si capisce facilmente che ci permettiamo di prendere delle iniziative.

Come ognuno avrà notato, non siamo sulla linea tradizionale dei partiti di sinistra, i quali pensano “ci mettiamo dietro ai sindacati e basta”. Ci sentiamo legittimati, per il posto che occupiamo, per il legame che secondo noi esiste con la politica rappresentativa, ad avanzare le nostre proprie opzioni strategiche per il movimento sociale, a proporre date, modalità d’azione. Questo non significa che vogliamo sostituirci ai sindacati, ai collettivi, alle associazioni o alle organizzazioni autonome di lotta. Abbiamo una funzione particolare rispetto a loro che riguarda il legame che articoliamo tra la politica delle lotte e la politica rappresentativa, quella delle istituzioni. Siamo qui affinché le lotte possano entrare nello Stato, nelle istituzioni, per trasformarle.

Concentriamoci su uno snodo temporale specifico. La congiuntura 2018-2023 fu segnata, oltre che dalla crisi del Covid-19, dalla sollevazione popolare dei Gilet Gialli (che entrò in risonanza con altre grandi insurrezioni democratiche, in Cile e Colombia, per esempio), dallo sciopero sociale contro la riforma delle pensioni di Macron e dalla rivolta antirazzista seguita all’omicidio di Nahel nell’agosto 2023. Questa fase ha senza dubbio rappresentato una svolta anche per LFI, che ha sfiorato il secondo turno delle elezioni presidenziali del 2022 (Mélenchon prese il 22%, Marine Le Pen il 23%). Su quali temi e in quale misura le lotte di questo periodo hanno ridefinito la linea e la strategia insoumise?

Il periodo che descrivete segna per noi l’ingresso del popolo francese in un processo di “rivoluzione cittadina”. Il movimento dei Gilet Gialli ha marcato una rottura. All’inizio, è un movimento che parte dalla questione di una tassa sul carburante e attraverso di essa, in realtà, dalla giustizia fiscale e dalle disuguaglianze urbane. Ma ciò che abbiamo visto è stata, in poche settimane, la trasformazione del contenuto rivendicativo di questa lotta. Da una parte, con un ampliamento delle rivendicazioni in numerosi ambiti: riforma generale del sistema fiscale, salari, pensioni, ecologia popolare, ecc. E dall’altra parte, nella direzione di porre la questione del potere. Con uno slogan che chiede un cambiamento radicale: “Macron, dimissioni” – non è affatto banale in Francia chiedere le dimissioni del Presidente della Repubblica. E con rivendicazioni democratiche che sono diventate centrali per i Gilet Gialli: il referendum di iniziativa cittadina, la revocabilità degli eletti, l’Assemblea costituente, ecc.

Il momento dei Gilet Gialli forse è passato. Ma questo momento “dégagiste” (che invoca la cacciata del potere), no. Da allora, ad ogni grande scossa del paese, lo vediamo riapparire rapidamente. I movimenti sociali non restano a lungo solo movimenti settoriali, confinati a un oggetto preciso. Si percepisce tra coloro che vi si impegnano il sentimento, se non la consapevolezza, che per cambiare davvero, allora bisogna cambiare tutto. E la questione del potere e del rifiuto della sua organizzazione si pone nei loro spiriti. Questo è accaduto ancora, ad esempio, nella fase del movimento contro la riforma delle pensioni che si è aperta dopo la decisione di ricorrere al 49.3 (il controverso articolo della Costituzione della V Repubblica che ha consentito l’approvazione senza voto parlamentare della riforma).

Siamo in un ciclo lungo di rivoluzione cittadina, che concepiamo come una fase piuttosto che come un evento insurrezionale circoscritto. La nostra strategia di fronte a ciò è doppia. Innanzitutto, cerchiamo, con la nostra azione e con le nostre proposte, di fare in modo che questa fase non si chiuda, di aiutarla ad attraversare le difficoltà e di mantenere aperta la prospettiva costituente. Questo può passare da posizioni parlamentari. Era questo il senso della nostra tattica all’Assemblea nazionale sulla legge sulle pensioni, che è consistita nell’impedire al governo di trovare un compromesso per camuffare la sua assenza di maggioranza. Abbiamo permesso in quel momento alla piazza di passare a una nuova fase, e prevenuto le manovre per chiudere prematuramente quell’episodio di lotta. Questo può anche avvenire attraverso proposte istituzionali che avanziamo. Qui, va menzionato l’esempio della proposta di destituzione di Emmanuel Macron in seguito al suo rifiuto di riconoscere il risultato delle elezioni del luglio 2024. Si trattava di mantenere aperta una prospettiva “dégagiste”, per mostrare che l’abbandono dei principi elementari della democrazia parlamentare da parte del potere macronista non significava la fine dello scontro.

In secondo luogo, il nostro ruolo come movimento politico è di fare in modo che i momenti elettorali si integrino in questo processo lungo di rivoluzione cittadina. Lo facciamo attraverso il nostro lavoro programmatico: qualunque sia l’elezione, la configurazione delle alleanze, deve esserci disponibile un’opzione di rottura. Poi, nelle elezioni, poniamo direttamente la questione del potere, del suo carattere “a portata di mano”.

Restiamo su questo nodo. Quali sono i rapporti tra La France Insoumise, i comitati e le associazioni delle banlieue, e i sindacati? Come si sono evoluti nel corso del tempo? Quali sono le principali fonti di tensione e quali le convergenze più promettenti? Come vedete il futuro di queste relazioni?

Bisogna prima guardare con lucidità a quali fossero i rapporti tra la società francese organizzata e i partiti di sinistra prima dell’esistenza de La France Insoumise. Per quanto riguarda i sindacati, il legame tra la CGT e il PCF si era affievolito col passare degli anni, soprattutto con l’indebolimento elettorale di quest’ultimo. Anche i rapporti tra i movimenti ecologisti e i Verdi si erano indeboliti a seguito delle trasformazioni di questi movimenti e delle delusioni causate dalle esperienze di governo degli ecologisti con la socialdemocrazia. Infine, i collettivi dei quartieri popolari erano del tutto ignorati e disprezzati.

La France Insoumise ha scelto di guardare alla società francese così com’è oggi, senza idealizzarla con una visione nostalgica del passato. Si è data una forma e delle modalità organizzative che permettono il coinvolgimento di tutte e tutti. Non è possibile fondare un movimento di massa, oggi, sul modello di una disciplina partitica assoluta e permanente, come avveniva nel secolo scorso con il proletariato maschile organizzato.

Di conseguenza, La France Insoumise è un movimento poroso rispetto alla società intera. Riconosce e organizza la possibilità che ciascuno dei suoi membri si impegni anche al di fuori del movimento: nel sindacato, in un collettivo, in un’associazione. È così che la maggior parte dei militanti insoumis può privilegiare un altro tipo di impegno, parallelo o alternato a quello insoumis, soprattutto fuori dai periodi di campagna elettorale.

Questa organizzazione discende dalla teoria dell’“era del popolo” e della rivoluzione cittadina. Essa individua nuovi campi di battaglia nella società, che si giocano all’interno della città e nell’accesso alle reti. Questo implica una particolare attenzione verso gli attori che conducono queste lotte quotidianamente, sotto forme diverse.

Per questo, il programma de La France Insoumise si alimenta largamente delle domande che provengono dalla società. Le rivendicazioni dei collettivi dei quartieri popolari, dei movimenti femministi, dei giovani per il clima, delle mobilitazioni nei territori d’oltremare sono anche le nostre, articolate in un programma che mira all’armonia tra gli esseri umani e con la natura.

Questo dialogo programmatico impone nuovi rapporti con questi attori, siano essi individuali o collettivi. Per voltare pagina rispetto alla sfiducia nella politica causata dai fallimenti della socialdemocrazia, lavoriamo ogni giorno per coinvolgere il maggior numero possibile di persone. Nei quartieri popolari, questo passa attraverso un lavoro permanente di presenza e di porta a porta, in contrasto con le pratiche militanti della vecchia sinistra. Ciò significa anche riconoscere agli abitanti il ruolo che meritano, quando organizziamo i nostri incontri annuali nei quartieri popolari o quando scegliamo i nostri candidati alle elezioni. Su questo stiamo facendo progressi, a poco a poco, man mano che sempre più persone si rendono disponibili a fare questo lavoro con noi.

Va detto che abbiamo dovuto affrontare resistenze da parte della vecchia sinistra nei recenti tentativi di attuare la nostra strategia di unione popolare al di là delle appartenenze partitiche. Sia nell’ambito della NUPES che del NFP, siamo stati in prima linea nel combattere affinché queste costruzioni fossero spazi aperti a tutti, iscritti o meno, e capaci di coinvolgere sindacati e associazioni. Ciò non è stato possibile a causa di chi vedeva in queste alleanze solo accordi elettorali, pronti a gettare a mare strutture e impegni programmatici alla prima occasione utile. Tali esperienze non sono state all’altezza delle speranze suscitate, ma ciò non ci impedirà di proseguire su questa strada nelle prossime scadenze.

All’inizio del 2023 avete lanciato l’Institut La Boétie, la fondazione culturale de La France Insoumise, con la quale diversi di noi collaborano attivamente. L’ILB non si limita a organizzare conferenze, dibattiti e inchieste, ma gioca anche un ruolo essenziale nella formazione dei militanti. Qual è il posto di questa “educazione popolare” nella costruzione di LFI come partito-movimento?

L’Institut La Boétie nasce da una riflessione che abbiamo avuto sull’evoluzione del movimento dopo la sequenza elettorale del 2022. In quell’occasione avevamo raggiunto diversi obiettivi importanti: il “sorpasso” sulla socialdemocrazia, confermato in due elezioni presidenziali; la crescita del nostro gruppo parlamentare, che ci ha reso il primo gruppo della sinistra; e l’esperienza di un’unione della sinistra guidata dalla sua ala più radicale.

Si apriva così una nuova fase, un periodo in cui dovevamo uscire definitivamente dalla nostra infanzia, rappresentata soprattutto da un meccanismo elettorale imbattibile. Ciò comportava l’invenzione di un dispositivo che permettesse di stabilizzare nel tempo il militante intellettuale, cioè quei settori che si avvicinavano a noi, soprattutto durante le campagne, per mettere la loro produzione al servizio della lotta.

L’Institut La Boétie è innanzitutto una struttura pensata per affidare incarichi più stabili a numerosi accademici che si erano avvicinati a noi durante le campagne elettorali. Tra questi incarichi c’è, ovviamente, la produzione di materiali utili per i militanti. Ma anche la battaglia ideologica contro l’ideologia dominante, che richiede studi, parole d’ordine scientifiche per contrastarla. Gli economisti dell’Institut, ad esempio, hanno avuto un ruolo importante in Francia nella diffusione della narrazione del legame tra prezzi e profitti durante la crisi inflazionistica. E poi c’è naturalmente l’educazione popolare, intesa come creazione progressiva di una struttura comune di saperi critici.

L’Institut La Boétie ha anche permesso di affrontare grandi discussioni strategiche. È uno spazio per discutere della lotta contro l’estrema destra, delle strategie di lotta ecologista, dell’orientamento elettorale del quarto blocco [il blocco elettorale virtuale costituito dall’astensione, NdT], ecc. Ha il vantaggio di scollegare queste discussioni da ogni competizione interna per posizioni dentro a LFI. Inoltre, pone il dibattito su basi fondate a partire dalle analisi delle scienze sociali. Il nostro libro collettivo Estrema destra: la resistibile ascesa (Éditions Amsterdam, 2024) è stato l’occasione per quasi un centinaio di incontri, in tutto il paese, tra ricercatori che hanno partecipato al libro, responsabili di LFI e militanti. Incontri che hanno incluso anche grandi conferenze video-trasmesse con Jean-Luc Mélenchon.

Ma la nostra idea non è che il rapporto tra gli intellettuali e il movimento debba essere a senso unico, come se dovessimo solo ricevere sapere. E, d’altronde, non è questa la concezione che anima gli accademici che partecipano ai nostri lavori. L’Institut La Boétie funge piuttosto da interfaccia che trasforma gli intellettuali stessi, che si ritrovano così a contatto permanente con il mondo militante, con il mondo delle lotte, ecc. Speriamo davvero che questo spazio, e gli incontri che favorisce, influenzino tutti coloro che vi partecipano.

Infine, l’Institut La Boétie è anche una scuola di formazione militante. È proprio lì che avviene il contatto più sostanziale tra professori e militanti di LFI. Questa scuola risponde a diversi obiettivi del movimento dalla fase iniziata nel 2022. Innanzitutto, è uno strumento per rafforzare parzialmente il movimento, come dicevamo prima. Nella nuova fase in cui ci troviamo, abbiamo bisogno di più quadri rispetto a quando eravamo soltanto una sorta di commando politico. Soprattutto, c’è un’importante questione di reclutamento sociale di questi quadri: quadri intermedi, future figure locali del movimento. La mobilitazione dei ceti popolari, sulla quale facciamo affidamento, può realizzarsi solo se offriamo loro una vera rappresentanza, nella loro diversità.

Concludiamo con la questione più urgente e spinosa. L’accelerazione del processo di fascistizzazione del potere politico e delle piattaforme digitali costituisce oggi la principale sfida per quella che, in Francia, si chiama “sinistra di rottura”. A fronte di queste tendenze, qual è l’orizzonte strategico di LFI? Come considerate, per esempio, le nozioni di “antifascismo”, “municipalismo” e “doppio potere”?

Noi insoumis riteniamo che sia cruciale conquistare lo Stato. Se sosteniamo i movimenti di disobbedienza, di resistenza ecologica, di lotta contro i grandi progetti inutili, che sono essenziali per rimettere in discussione l’egemonia del modello dominante e proporre alternative credibili, la loro azione da sola non basta. L’azione diretta e la disobbedienza hanno la capacità di bloccare piani di sviluppo e fare pressione sullo Stato, ma le zone di autonomia non sono sufficienti per una reale protezione dei beni comuni. Se vogliamo porre fine al capitalismo: chi può trasformare l’apparato produttivo? Iniziative isolate, o uno Stato pianificatore? Ci troviamo di fronte a un problema di tempistiche: la realtà della crisi ecologica implica non solo cambiamenti molto profondi, ma anche molto rapidi.

È cruciale conquistare lo Stato, e bisogna farlo tramite le urne, quindi attraverso le elezioni. Perché tramite le elezioni? Perché l’azione rivoluzionaria armata non è adatta alla società francese del XXI secolo. Siamo materialisti: già da diversi decenni, le insurrezioni armate e le guerriglie non hanno portato altro che alla morte dei nostri. L’obiettivo della vittoria elettorale implica quindi la costruzione di un popolo rivoluzionario. È matematicamente necessario: serve il 50% dei voti più uno per vincere. È soprattutto necessario mobilitare gli astensionisti attorno a un programma federatore.

In seguito, un popolo rivoluzionario è necessario per l’esercizio del potere. Di fronte a noi si ergono già, e si ergeranno ancor più, le forze del denaro, il capitalismo, le grandi multinazionali potenti e organizzate. La biforcazione ecologica che vogliamo mettere in atto richiede di spezzare le forze del denaro tramite la pianificazione statale, mediante una regolazione radicale, e quindi un potere forte. Ciò comporta la necessità di affrontare il capitalismo con vigore, e ciò non potrà essere fatto che con l’appoggio del popolo.

Inoltre, un governo insoumis implica necessariamente la democrazia, nel senso ampio del termine. Questi furono gli errori commessi nel processo del 1981 in Francia [il riferimento è al primo mandato presidenziale del socialista François Mitterand, NdT]: si fecero delle nazionalizzazioni senza mettere in discussione la direzione delle imprese, il che è diverso dalla collettivizzazione che noi difendiamo. I socialisti non hanno fatto appello alla mobilitazione popolare e quindi se ne sono distaccati. La pianificazione ecologica che vogliamo attuare deve essere imperativamente democratica e appoggiarsi sui cittadini, facendo leva sull’aspirazione popolare a una totale riconversione del nostro sistema. Piuttosto che un’idea di doppio potere, si tratta per gli insoumis di conquistare lo Stato per trasformarlo, organizzando l’intervento popolare permanente e la sua appropriazione da parte del maggior numero possibile, anche attraverso l’istituzione di un’Assemblea costituente. Ma questo non deve escludere una dialettica con le zone di autonomia, zone di sperimentazione e mobilitazione popolare al di fuori dello Stato. La nostra strategia rivoluzionaria è un processo che comprende e intreccia la democratizzazione dello Stato e la messa in ebollizione della società attraverso un forte movimento sociale esterno allo Stato, che giunga fino alla sperimentazione di nuove forme di vita.

In vista delle prossime elezioni municipali, proponiamo l’idea di un municipalismo insoumis. Per noi, i comuni sono anzitutto uno strumento al centro del nostro obiettivo politico: la rivoluzione cittadina. Certo, questa rivoluzione non può realizzarsi in un solo comune. Né tantomeno vincendo le elezioni in più comuni allo stesso tempo. La posizione istituzionale, le risorse finanziarie e la scala produttiva dei territori municipali non lo permettono. Ma, nei comuni può formarsi la cultura dell’intervento popolare permanente, ponendo le basi delle pratiche, delle abitudini, del nuovo rapporto con gli eletti necessari per costruire la rivoluzione cittadina su scala nazionale. Esse sono uno spazio di approfondimento della sovranità popolare.

Uno dei compiti centrali della rivoluzione cittadina sarà anche quello di rompere con il modello di produzione, di consumo e di scambio per mettere gli esseri umani in armonia tra loro e con la natura. La pianificazione ecologica è il mezzo concreto per farlo. Ora, è nei comuni che si trovano le sue istituzioni, le sue strutture di base. È a questo livello che può essere gestita la delicata questione dei bisogni reali, e la distribuzione graduale degli investimenti. A monte e a valle, spetta alla democrazia comunale realizzare ciò che il mercato non sarà mai in grado di fare. Spetterà alle municipalità votate a questo ideale cominciare a mettere in atto gestioni pubbliche, società pubbliche locali, inventari biosferici, e costruire le competenze di cui la pianificazione ecologica avrà bisogno al momento opportuno a tutti gli altri livelli della decisione pubblica.

È in questo quadro che affrontiamo le tendenze all’estremizzazione di destra nella sfera politico-mediatica. Non affrontiamo un partito, ma un movimento ideologico fatto di derive e fusioni tra attori che condividono la volontà di proteggere gli interessi della borghesia. Questo fenomeno richiede dunque una risposta antifascista assunta fino in fondo. Il successo senza precedenti delle manifestazioni contro il razzismo e l’estrema destra del 22 marzo di quest’anno è dovuto in gran parte al lavoro del nostro movimento e mostra una disponibilità popolare alla mobilitazione per una Francia liberata dai fascisti. Questa disponibilità è stata anche una leva fondamentale per la vittoria elettorale del Nuovo Fronte Popolare alle elezioni legislative del luglio 2024.

Abbiamo previsto questo scontro con il fascismo. “Alla fine, saremo noi contro di loro”: la formula di Jean-Luc Mélenchon ha più di dieci anni. Questa battaglia implica il rafforzamento degli strumenti che abbiamo pazientemente costruito: media insoumis, comunicazioni interne e rivolte al grande pubblico sui social, servizio d’ordine, disciplina organizzativa… Comporta anche, e soprattutto, di non cedere di un millimetro sul piano ideologico e programmatico. Uno scontro durissimo con la borghesia ci ha temprato. Questo scontro è sempre più violento, ma non cederemo.

Copertina del primo numero di Teiko

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